Mia Martini con Enrico De Angelis
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Esile e sfrontata, passionale, voce eccezionalmente estesa, quasi una nostra Edith Piaf
Chi poteva immaginare che ci
fosse ancora da aggiungere qualcosa a canzoni assolute come La donna cannone, Come together,
Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival o certi primi pezzi di Pino
Daniele; o altri capolavori meno celebri ma già perfezionati dai loro autori,
tipo It’s money that I love di Randy Newman
e La costruzione di un
amore di Ivano Fossati?
Mia Martini ci riesce. La sua
è una grande voce internazionale
che si riappropria di questa materia incandescente e la riplasma in fogge
ulteriori, rimanendo elegantemente femminile anche nel pieno del rock.
Prende il pezzo lineare di Fossati e comincia a dondolarlo, ad altalenarlo in su e giù, ma sempre lungo un percorso netto, privo di sbavature, perché questa è una voce che anziché sulle ambiguità o sulle sfumature di contorno punta su un altissimo grado di densità: limpida o rauca che sia, va seccamente al sodo, concentra grandi emozioni in brevi attimi, senza fronzoli, senza annacquare il sugo.
Prende De Gregori, soppesa e valorizza ogni parola, ogni nota, al momento cruciale esce dalla melodia e, sempre con precisione millimetrica, vi rientra bel bella, come se niente fosse.
Prende Randy Newman e si fa blues, si fa soul, e schiaccia tutto in un agglomerato formidabile di potenza e humour.
Prende Pino Daniele o anche Paolo Conte (Spaccami il cuore, un brano anomalo nel repertorio di Mia, forse perché troppo stilizzato e astratto per 'l'anima' con cui le canta) e qui, come una negra smaliziata, dialoga disinvoltamente col sax altrettanto sciolto di Eric Daniel (uno dei sei bravi musicisti, chi più chi meno, di cui Mimì è bonaria regina.
Prende il pezzo lineare di Fossati e comincia a dondolarlo, ad altalenarlo in su e giù, ma sempre lungo un percorso netto, privo di sbavature, perché questa è una voce che anziché sulle ambiguità o sulle sfumature di contorno punta su un altissimo grado di densità: limpida o rauca che sia, va seccamente al sodo, concentra grandi emozioni in brevi attimi, senza fronzoli, senza annacquare il sugo.
Prende De Gregori, soppesa e valorizza ogni parola, ogni nota, al momento cruciale esce dalla melodia e, sempre con precisione millimetrica, vi rientra bel bella, come se niente fosse.
Prende Randy Newman e si fa blues, si fa soul, e schiaccia tutto in un agglomerato formidabile di potenza e humour.
Prende Pino Daniele o anche Paolo Conte (Spaccami il cuore, un brano anomalo nel repertorio di Mia, forse perché troppo stilizzato e astratto per 'l'anima' con cui le canta) e qui, come una negra smaliziata, dialoga disinvoltamente col sax altrettanto sciolto di Eric Daniel (uno dei sei bravi musicisti, chi più chi meno, di cui Mimì è bonaria regina.
Questo per dire dei ‘classici’. Ma Mia Martini è
forse ancora più stupefacente quando, al contrario, maneggia autori ‘medi’
o poco più (tutti i Baldan Bembo,
i Maurizio Fabrizio, i Califano, i Pintucci, i Maurizio Piccoli che ha usato
nella prima parte della sua storia)
e improvvisamente li rende
credibili, ne innalza il livello. Se la canzone è melodrammatica, come Minuetto, lei la corregge con orgogliosa sobrietà; ma se è un'invettiva violenta come la sessantottesca Padre davvero, la giustifica proprio cantando sopra il rigo. Della mediocre Piccolo uomo fece e fa tuttora un hit che trascina chiunque. Agapimu è solo un divertissement, eppure anche cantando in greco trasmette la sensazione che stia puntualmente aderendo ad ogni vocabolo con intelligenza ed emotività.
Tra il primo gruppo di titoli e l'altro, c'è anche un suo repertorio originale di indiscutibile valore. Amanti, per esempio: una piccola gentile dichiarazione d'amore, di un amore discreto, non invadente, un po' malinconico, che poi cresce fino alla 'pazzia' dell'istante, fino al diritto di sbagliare, almeno una volta. Lei se la canta come se la cullasse nel letto, prima di addormentarsi; e quella musica è tanto connaturata ai versi che non la si nota nemmeno più (è la vera magia delle canzoni), restano le parole, soavemente 'conversate' come in una pièce teatrale.
Valsinha di Vinicius De Moraes e Chico Buarque De Hollanda (che Mimì incise in contemporanea con Patty Pravo) è l'attimo fuggente raccontato in terza persona, con sospesa delicatezza e finissima precisione di dettagli: e lei lo racconta con civile tenerezza, sorridendo e piangendo insieme, sommessamente commossa ed entusiasmata come stesse parlando di sé. Un gradino di poesia più in alto della media è anche Danza, che precorre il Fossati 'etnico' degli ultimi dischi. In Per amarti Mia dà i brividi perché sembra dover scoppiare, tanto grida (ma senza aggressività). Bella è anche Stelle, una canzone tutta scritta da lei, e così i pezzi recenti di Enzo Gragnaniello, Donna e Statte vicino a me. E pure la canzone dell'ultimo Sanremo, Almeno tu nell'universo (della ricorrente accoppiata Bruno Lauzi-Maurizio Fabrizio): un altro esempio di melodia lineare, pacata, saggia, appagata, che la voce di Mia sonda in profondità, aggiungendo quel pizzico di turbamento, quello slancio inquieto che accrescono la canzone ben al di là della sua struttura.
Queste ed altre sono le cose che abbiamo sentito giovedì sera al Corallo, dove Musicaviva ha portato Mia Martini senza purtroppo fare il 'pieno' che la serata meritava. Un grande recital, subito appassionato ed emozionato fin dal primo momento, senza alcun bisogno di 'scaldarsi' progressivamente.
Sul palco Mia Martini si presenta come una ‘piccola donna’ in grigio, esile, colloquiale, affettuosa, apparentemente modesta e persino dimessa, in realtà padrona della scena, improvvisamente sfrontata come una bambina. Si muove danzando mani e braccia, un rosso sorriso spicca maliziosamente nel grigio, è principessa e cenerentola insieme. Canta spesso a occhi bassi, come cercando la concentrazione molto al di dentro di sé, magari poi aprendo il canto ma senza estroversione, passionale più che drammatica. Passa da note basse, roche, sporche, imbronciate, a vette estreme sottili e vibranti; da una voce stanca e lontana al tono prorompente e vitale di un inno d’amore, a un registro strozzato che comprende anche tutti gli altri.
Tra il primo gruppo di titoli e l'altro, c'è anche un suo repertorio originale di indiscutibile valore. Amanti, per esempio: una piccola gentile dichiarazione d'amore, di un amore discreto, non invadente, un po' malinconico, che poi cresce fino alla 'pazzia' dell'istante, fino al diritto di sbagliare, almeno una volta. Lei se la canta come se la cullasse nel letto, prima di addormentarsi; e quella musica è tanto connaturata ai versi che non la si nota nemmeno più (è la vera magia delle canzoni), restano le parole, soavemente 'conversate' come in una pièce teatrale.
Valsinha di Vinicius De Moraes e Chico Buarque De Hollanda (che Mimì incise in contemporanea con Patty Pravo) è l'attimo fuggente raccontato in terza persona, con sospesa delicatezza e finissima precisione di dettagli: e lei lo racconta con civile tenerezza, sorridendo e piangendo insieme, sommessamente commossa ed entusiasmata come stesse parlando di sé. Un gradino di poesia più in alto della media è anche Danza, che precorre il Fossati 'etnico' degli ultimi dischi. In Per amarti Mia dà i brividi perché sembra dover scoppiare, tanto grida (ma senza aggressività). Bella è anche Stelle, una canzone tutta scritta da lei, e così i pezzi recenti di Enzo Gragnaniello, Donna e Statte vicino a me. E pure la canzone dell'ultimo Sanremo, Almeno tu nell'universo (della ricorrente accoppiata Bruno Lauzi-Maurizio Fabrizio): un altro esempio di melodia lineare, pacata, saggia, appagata, che la voce di Mia sonda in profondità, aggiungendo quel pizzico di turbamento, quello slancio inquieto che accrescono la canzone ben al di là della sua struttura.
Queste ed altre sono le cose che abbiamo sentito giovedì sera al Corallo, dove Musicaviva ha portato Mia Martini senza purtroppo fare il 'pieno' che la serata meritava. Un grande recital, subito appassionato ed emozionato fin dal primo momento, senza alcun bisogno di 'scaldarsi' progressivamente.
Sul palco Mia Martini si presenta come una ‘piccola donna’ in grigio, esile, colloquiale, affettuosa, apparentemente modesta e persino dimessa, in realtà padrona della scena, improvvisamente sfrontata come una bambina. Si muove danzando mani e braccia, un rosso sorriso spicca maliziosamente nel grigio, è principessa e cenerentola insieme. Canta spesso a occhi bassi, come cercando la concentrazione molto al di dentro di sé, magari poi aprendo il canto ma senza estroversione, passionale più che drammatica. Passa da note basse, roche, sporche, imbronciate, a vette estreme sottili e vibranti; da una voce stanca e lontana al tono prorompente e vitale di un inno d’amore, a un registro strozzato che comprende anche tutti gli altri.
E’, lo possiamo dire?, una nostra Edith Piaf di fine secolo. Lo è
nella voce, nella statura, nei gesti, nelle mani tremanti portate ai
capelli, nell’ergersi sulla punta dei piedi, nell’abbigliamento scuro,
nell’ardore e nell’assolutezza, e anche in tutta quella sequela di grandi
autori che canta, quei ‘compagni di
viaggio’ che cita lungo il cammino: tanti,
troppi uomini e autentici talenti per quella gonna lunga e
chiusa in fondo: per quella figura monastica interrotta dall’unica
civetteria del rossetto, intorno a cui persino i vapori della pop music
diventano incenso: per quella piccola solitudine che nemmeno tutti quei
musicisti sembrano poter lenire.
Enrico De Angelis per L’Arena di Verona
Articolo inserito nel libro Mia Martini La regina senza trono
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http://questimieipensieri.blogspot.it/2011/02/incontro-con-mia-martini-la-voce-che.html
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